Tra i tanti interrogativi che ci lascia la tragedia del Ponte Morandi di Genova, uno di non poco conto è quello sul Partenariato Pubblico – Privato (“PPP”), ovvero la principale modalità di collaborazione tra pubblico e privato nella realizzazione e gestione di infrastrutture.

Dove va il PPP dopo il caso “Ponte-Morandi”? Qual è l’insegnamento che deriva dalla vicenda di Autostrade per l’Italia, anche alla luce dell’evoluzione dei tempi? E quali sono i rischi di una reazione emotiva ad un così tragico evento? Più in generale: c’è ancora spazio per una proficua collaborazione tra pubblico e privato? Qual è il messaggio che ci arriva dal più ampio contesto internazionale? E in che termini il PPP può davvero essere una soluzione ottimale per la realizzazione di nuovi investimenti in infrastrutture e la gestione efficiente di quelli esistenti?

Cominciamo senza remore ad affrontare il punto più delicato di tutta la vicenda del Ponte Morandi: il rischio è che di fronte ad una vicenda tragica e all’evidenza manifesta di una concessione sbilanciata a beneficio del privato, si butti il bambino con l’acqua sporca. Una “stretta” generalizzata e una forte penalizzazione del PPP, da parte del legislatore e dell’ANAC, determinerebbe oggi soltanto un ulteriore ostacolo alla crescita degli investimenti di medio-lungo termine, proprio nel momento in cui tutti gli altri paesi stanno rilanciando questi investimenti e l’Italia dovrebbe cercare di scuotersi dal suo lungo torpore.

Ma sarebbe anche una beffa imperdonabile nonché l’ennesima evidenza che il nostro Paese si presenta sempre in ritardo agli appuntamenti della storia. La formula di PPP adottata da Autostrade per l’Italia è infatti una formula “vecchia” e ormai datata, risalente ad una stagione, quella degli anni ’90, in cui la principale controparte privata di un soggetto pubblico poteva essere l’imprenditore. Il costruttore a livello locale e l’imprenditore di “elite” a livello nazionale.

Oggi, e da molto tempo in verità, non è più così. Negli ultimi 20 anni si sono verificati ovunque importanti cambiamenti che hanno profondamente modificato le modalità di PPP prevalenti a livello internazionale, trasformandolo in un Partenariato Pubblico – “Istituzionale” o Pubblico-Sociale. Sono nati, infatti, fondi comuni di investimento specializzati in infrastrutture, sia sul lato debito che equity, capaci di agire come promotori di nuove iniziative e gestori di quelle esistenti, alimentati da investitori istituzionali come i fondi pensione e le assicurazioni oppure da operatori sociali, del c.d. terzo settore, ed investitori a loro vicini (per esempio le fondazioni bancarie).

Alcuni dati evidenziano bene la direzione del cambiamento a livello internazionale:

  • McKinsey stima il fabbisogno globale di nuovi investimenti in infrastrutture al 2030 pari a 90 trilioni di dollari (New Climate Economy’s 2014 report) a fronte di un valore attuale delle infrastrutture esistenti di circa 50 trilioni di dollari. Si tratta di un importo troppo grande e troppo distante dall’attuale flusso di investimenti – circa 2,5-3 trilioni l’anno (cioè la metà del necessario) – per gravare interamente sui bilanci pubblici di paesi, peraltro, spesso già fortemente indebitati;
  • A fronte di tale quadro generale, l’Italia ha registrato negli ultimi 10 anni una riduzione degli investimenti in capitale fisso che va dal 40 al 60%, a seconda del bacino di PA che si considera (PA centrale, locale o complessiva) e dei capitoli che si analizzano (tutti gli investimenti o solo quelli in infrastrutture);
  • Eppure si soldi non mancano. Il patrimonio degli investitori istituzionali italiani, estremamente limitato negli anni ’90, ammonta oggi a quasi 1.000 mld di Euro ed è solo in parte irrilevante indirizzato verso l’economia reale e le infrastrutture. Non solo. La Long Term Infrastructure Investors Association (“LTIIA”), che raccoglie numerosi investitori istituzionali internazionali specializzati in infrastrutture, rappresenta circa 10mila mld di dollari di patrimoni destinati a tali investimenti. Quasi nulla arriva nel nostro Paese, peraltro oggi inserito dalla maggior parte di questi operatori in “blacklist” in quanto non giudicato affidabile e credibile;

In questo contesto tutti i principali paesi OCSE e del G20 hanno profondamente rivisto le rispettive normative per favorire il coinvolgimento di risparmio istituzionale negli investimenti in infrastrutture, tramite operatori specializzati come i fondi infrastrutturali, che sono regolati e vigilati quali strumenti di risparmio gestito e pertanto connotati da elementi di efficienza e trasparenza.

Del resto la revisione delle normative nazionali volta a consentire, favorire e incentivare il coinvolgimento di capitale istituzionale nelle infrastrutture era uno dei tre pilastri del Piano Juncker, da noi rimasto sostanzialmente inattuato con diversi inspiegabili casi di direzione “ostinata e contraria”, come una ad esempio disciplina fiscale penalizzante per gli investitori istituzionali e normative anacronistiche sugli investimenti di questi soggetti.

Un’occasione persa che oggi potrebbe essere però pienamente recuperata. Identificando bene le “determinate condizioni” alle quali gli investitori istituzionali posso entrare nel “rischio” delle infrastrutture, per realizzarle. E quindi integrare nel processo di investimento “privato ma istituzionale” nuove prospettive, tra le quali la valutazione accurata dell’impatto sul sistema economico (“impact investing”); il rispetto dell’ambiente, l’attenzione alle dinamiche sociali e l’adozione di più efficaci soluzioni di governance (Sostenibilità; “ESG”); l’adeguamento delle infrastrutture alle nuove frontiere tecnologiche (smart infrastructure) e la connessione con i nuovi programmi speciali di supporto varati da tutti i paesi, come il Piano Juncker per l’UE oggi in fase di trasformazione (“InvestEU”).

Non si tratta solo di puri tecnicismi, ma di una nuova impostazione di Policy, di una nuova forma di operare del sistema economico che – come già accennato – si apre al partenariato pubblico-istituzionale e al partenariato pubblico-sociale. Si passa così ad un modello di PPP allargato, esteso ad operatori privati ma sociali o istituzionali (fondi infrastrutture, Fondazioni Bancarie, assicurazioni, fondi pensione, ecc.), trasparenti e responsabili e per questo adatti a soluzioni di convergenza dell’interesse pubblico e di quello privatistico.

Un passaggio non semplice che richiede interventi coordinati a diversi livelli: dalla normativa sugli impieghi degli investitori istituzionali a quella della gestione del risparmio; dalla disciplina di appalti e concessioni a quella del settore creditizio; da quella fiscale alla regolamentazione dei singoli settori di possibile intervento.

Sul fronte soggettivo, si tratta di capire che il nuovo PPP di tipo istituzionale o sociale richiede innanzitutto una rilettura dell’identità e delle caratteristiche dei suoi due principali protagonisti: il soggetto pubblico e quello privato. Il soggetto pubblico deve raggiungere livelli soddisfacenti di efficienza e trasparenza misurabili con adeguate metodologie dagli investitori, quali indici di un ridotto rischio politico. Un esempio di misurazione di questi standard oggi è quello adottato dalla Fondazione Etica.

Il soggetto privato, da par suo, deve diventare trasparente e attento all’equità generale dell’operazione perché nel medio-lungo termine ogni asimmetria e iniquità prima o poi viene fuori e rischia di diventare, come ci testimonia il caso del Ponte Morandi, dannosa anche per chi poteva magari pensare di beneficiarne.

Sul fronte normativo, la strada appare ancora lunga ed appena agli inizi. Per limitarci a qualche esempio:

  • legge appalti e concessioni deve perseguire anche la eleggibilità delle operazioni per il capitale di rischio e non solo la bancabilità per il capitale di credito, per esempio aprendo la possibilità che fondi infrastrutturali o operatori diversi dal tradizionale imprenditore -costruttore possano investire equity agendo da promotori senza l’obbligo di operare in ATI con società di costruzione (ben rimanendo ovviamente liberi di farlo) e senza per questo dover, in tal caso, selezionare il costruttore adottando da privati la legge appalti;
  • La disciplina del credito deve analizzare tutti gli ostacoli che fino ad oggi hanno impedito e limitato l’attività di finanziatori diversi da banche nel nostro Paese (es. fondi di credito per le infrastrutture);
  • La disciplina degli investimenti delle varie categorie di investitori istituzionali deve essere più coraggiosa, puntando sul connubio “competenza-flessibilità” piuttosto che sulla tradizionale impostazione dei divieti peraltro indistinti;
  • L’ANAC deve evolvere rapidamente da autorità anticorruzione ad autorità di settore, acquisendo maggiore competenza in ambito finanziario e una più elevata capacità di trasparente dialogo con gli investitori istituzionali, per loro natura portatori di una domanda di legalità e di tutela da fenomeni distorsivi di qualsiasi tipo.

Link all’articolo: huffingtonpost.it